A quasi due settimane dall’inizio dell’emergenza, posso dire di avere sperimentato la forma più estrema di collaborazione subordinata.
Dove la subordinazione si intende ai figli, mica al datore di lavoro.
Da un lato la meraviglia di non correre a prendere un treno che sarà in ritardo quando sei puntuale e viceversa, di non perdere i tuoi anni migliori in coda sulla tangenziale ovest guardando l’ikea dal cavalcavia.
La bellezza di collegarti via Skype con le tue colleghe con una camicia elegante e sotto, al riparo da webcam indiscrete, i pantaloni del pigiama del nonno, quelli maròn con l’elastico slabbrato ma sai la comodità.
Poco importa se durante la lettura dell’ordine del giorno il gatto salta sulla tastiera e mostra il posteriore alla telecamera, il corriere si attacca al campanello -e scompare magicamente non appena apri la porta- un figlio ti chiama per dirti che è finito il dentifricio, l’altra passa con la maschera all’argilla sulla faccia e l’ultima si aggira col pigiama peloso del bianconiglio.
Cosa volete che sia se, durante una telefonata delicata e importante, il primogenito e la piccola si azzuffino come bestie feroci, ululando come lupi nella steppa.
Non è grave se scrivi una mail misurando le parole come grammi di fumo sul bilancino e poi la invii per errore a Zalando perché la mezzana ti sta rintronando coi suoi TikTok da ore.
In questi primi dieci giorni di smart working ho capito che stare a casa crea legami indissolubili. Soprattutto quando leghi la prole sul terrazzo per riuscire almeno a finire una telefonata.