“Mother, domani vado a Milano coi miei amici, ok?”
Ci sono delle volte, nella mia vita da genitore, che segno dei colpi perfetti. Un goal da metà campo, un tiro da tre all’ultimo minuto quando sei sotto di due, un set vinto con una serie di ace.
Sono quei momenti in cui sento gli applausi in sottofondo come nelle sit com degli anni novanta, faccio in scivolata sulle ginocchia il corridoio di casa con le braccia alzate al cielo, mi asciugo una lacrima di commozione per quanto sono stata brava.
Succede quando mescolo nel modo giusto i miei strani ingredienti pedagogici, come una strega moderna che non ha paura tanto del rogo quanto delle esuberanze adolescenziali dei propri figli.
Altre volte, invece, sono la prima causa della sconfitta, con clamorosi autogol, palle fuori e reti prese in pieno.
Quando perdo partita e campionato, retrocessa nella serie più infima.
Quando i miei artifizi magici saltano per aria anziché curare, quando la mia esperienza non è abbastanza e non posso nemmeno pensare di chiedere aiuto a chi ne ha di più. Potrei sconvolgere la nonna a chiederle se sia il caso di far pubblicare alla piccola i video su TikTok, che per lei altro non sono che le mentine nella scatola trasparente.
Ai tempi del coronavirus servono strumenti, astuzie e conoscenze in più. Non c’è amuchina che tenga, mascherina o terapia che ti metta al riparo da scelte, decisioni e responsabilità nuove.
L’unica profilassi che conosco è la coscienza civile e quindi no, Mother non ti lascia andare a Milano domani e nemmeno dopodomani.
Dobbiamo lavarci le mani ma non possiamo pulirci la coscienza.
E insegnarlo ai nostri bambini, ragazzi, giovani e figli.