E con questa fanno otto, se contiamo anche quella che ci ha portato in ospedale la notte in cui sei nato.
Otto viaggi in ambulanza, di mattina presto, sera tardi, col buio o il sole.
Tu, caro il mio primogenito, conservi il talento unico di togliermi anni di vita e imbiancarmi i capelli, tanto che dovrei addebitarti i settanta euro mensili di tinta.
Stamattina all’alba, quando la faticosa routine del mattino prendeva forma, tra una fetta di pane e marmellata, un sorso di latte e un paio di letti da rifare, hai chiamato piano “mamma”, che già di per sé è indicativo di un malessere, io che per te sono sempre Blo, Maria, Mother.
In pochi istanti sei riuscito a spaventare la mezzana, terrorizzare la piccola e smuovere un po’ di ansie della mamma che sì, mantiene sempre il sangue freddo ma eviterebbe volentieri.
Poi sono arrivati loro, con la tuta arancione e la calma efficiente, che fa mettere ordine e seda le ansie, con dolcezza e competenza.
Che ci hanno accompagnato in un ospedale che sembrava un’astronave, dove abbiamo incontrato un’umanità varia e dolente, un andirivieni di medici, infermieri e volontari qualcuno simpatico, qualcun altro meno, come spesso accade.
Resta il sollievo dopo la paura, la tara da fare alle quotidiane lamentele, il peso netto di cosa è importante e ciò che non lo è.
Io, intanto, prendo appuntamento dal parrucchiere per la tinta.