Il mio fidanzato è uomo di talenti e peculiarità.
Dotato di una capacità organizzativa fuori dal comune, riesce a pianificare un viaggio dal nulla incastrando voli, noleggio auto, bed and breakfast.
Valuta locali incrociando i dati e le recensioni, studia con attenzione menù, posizione, rapporto qualità prezzo e difficilmente sbaglia.
Trova la strada giusta come se fosse un autoctono, guidato da un senso dell’orientamento che io -ancora in difficoltà a distinguere la destra dalla sinistra- mai possederò.
Su un sentiero sperduto riconosce i segni, il passaggio di un umano, studia impronte e riesce sempre a tornare a casa.
Unisce intelligenza e intuito, problem solving e attenzione.
È per desiderio e necessità un uomo tecnologico, e il più delle volte la tecnologia gli è amica e fedele compagna.
Tuttavia nessuno è perfetto e la misura di questa imperfezione -oltre la passione per i negozi di souvenir tamarri- è il rapporto con Google Maps, ogni volta che dobbiamo andare in un luogo diverso.
La dinamica di questa complessa e controversa relazione è sempre la stessa. Lui apre l’app e osserva la strada che ci viene consigliata.
E comincia con “Google, ma che stai a dì”.
Sì, perché la polemica è necessariamente in viterbese, sua lingua madre, con verbi troncati delle desinenze.
“E mò dove mi fai ‘annà” “ma qui bisogna scende, mica salì”.
In un crescendo di polemica e recriminazione.
Alla fine, in un modo o nell’altro, raggiungiamo sempre la nostra destinazione.
Finché un giorno, temo, Google non ci risponderà “ma vedi di ‘annà a piedi”