Le mani sudate, le dita che si attorcigliano nervose e inquiete.
Lo sguardo sfuggente, gli occhi che si posano su tutto senza vedere niente.
I capelli tormentati, un po’ per il caldo, un po’ per l’ansia, la pipì che scappa anche se l’hai appena fatta.
La pancia che si contrae quando stanno per chiamare il tuo nome e tu sei lì, su una sedia marrone nel corridoio della scuola media.
Intanto tua figlia, quella che realmente sta per affrontare la prova orale dell’esame di terza, svolazza serena tra una compagna e l’altra, ride a una battuta, si fa un selfie ricordo con le amiche.
Non ha mostrato cedimenti nemmeno quando è entrata con lo zaino di sempre, il cartellone sul Canada in una mano e la chiavetta col power point contenete tutto il suo sapere nella tasca dei pantaloni.
In macchina, con noncuranza, ha provato a chiedere come fosse scoppiata la prima guerra mondiale -lo so mamma, eh, è solo per sicurezza- e mi ha confermato che sarei entrata a vederla -tu mamma, sei obbligatoria, perché poi mi dici per davvero come è andata.
E a me questa cosa dell’obbligatorietà, che è ancora qualcosa di più della necessità, è piaciuta tanto.
Dopo l’esame è scappata via lieve, leggera e gaudente per andare a mangiare il gelato con le amiche, e io non sono stata più né obbligatoria né necessaria.
E va bene così, mezzana del mio cuore.