La classe della piccola, insieme a altre quinte elementari della scuola, partecipa da qualche tempo a un progetto di ricerca sul comportamento dei bambini.
Io, sempre favorevole a tutto ciò che aiuta a comprendere quello che accade nelle testoline della amata progenie, ho subito firmato l’autorizzazione affinché anche la piccola -che già da sola sarebbe un bel case study- fosse inclusa nella sperimentazione.
Stamattina all’alba, tra una tazza di latte e un letto da rifare, la fanciulla si è presentata con un questionario di dodici pagine che dovevo compilare lì, subito, nell’immediatezza della colazione.
A malincuore ma fiduciosa nella scienza e ricerca ho preso una penna.
Domanda tre, pagina sei. “Il bambino/a sembra ansioso per situazioni specifiche? Es. cani, temporali, altezza, prendersi una pallottola”
“Prendersi una pallottola? Ma che viviamo nel Bronx? Piccola, ma tu hai mai avuto questa paura?”
“Mami, che dici? E perché qualcuno dovrebbe spararmi? Non essere ridicola”
“Ah, ecco. Lo dicevo io che non potevi avere queste paure assurde”
“Infatti è così. Perché devi sapere invece che ci sono delle probabilità di essere colpiti da un meteorite, sai? Meno di quelle per vincere alla lotteria ma non si sa mai, meglio guardare bene il cielo. E il rischio tsunami? Vero, noi non abitiamo tanto vicino al mare, ma non si sa mai. E le eruzioni vulcaniche? Ah, quelle sì che sono tremende. Vero che qui non abbiamo vulcani, ma…”
“Ma non si sa mai”
“Giusto! Brava mamma, adesso bacio che vado a scuola. A dopo! E speriamo che nessuno ti spari, eh”
Io esco, ma mi guardo le spalle.
Non si sa mai.