S’era concesso così, con la disinvoltura di un’udienza privata dal pontefice, l’agio di un caffè con Obama, la serenità di un tè alle cinque con la regina Elisabetta.
Io ho capito che non dovevo esitare, prendere quel sì come l’ultimo biglietto su ticket one per il concerto preferito, anche se costa più dello stipendio e sei nell’ultimo anello sul tetto del palazzetto.
Ho afferrato il momento con il più glorioso dei carpe diem da attimo fuggente.
Ho accolto con commozione l’onore che mi era toccato in sorte.
Il primogenito quasi guarito, qualche giorno fa, ha accettato di accompagnarmi a un evento importante, a cui tenevo in modo particolare.
Io e lui soli, una volta abbandonate-in ottime mani- le sorelle minori.
Una pizza mangiata sugli sgabelli alti di un locale del centro, la prima proiezione di un film che ci rende tutti un po’ protagonisti.
Per il red carpet il giovane uomo si è presentato con una felpa di quattro taglie più grande del normale e dei pantaloni mimetici arancione fluorescente -coi quali mimetizzarsi solo in una confezione di stabilo boss- e le caviglie rigorosamente scoperte.
A fine proiezione, preso da un attacco di tosse, forse causato dalle caviglie scoperte nel gelo di gennaio, ha pregato di essere riportato a casa per la tumulazione.
Giunti a destinazione si è ricordato degli esercizi di geometria da fare per il giorno dopo, li ha svolti con l’entusiasmo del condannato a morte e poi è andato a dormire.
Lui, il mio cavaliere scintillante dal pigiama coi risvoltini.