Ho sempre amato osservare le interazioni umane e la comunicazione fra le persone.
Negli anni ho imparato a temere alcuni incipit, delle parole che messe in fila non fanno presagire nulla di buono.
Per esempio, un fidanzato che ti dice “dobbiamo parlare”, ed è quasi certo che non voglia confrontarsi sul ristorante dove andare a cena.
La piccola che sussurra “senza offesa, mami, ma…” (il polpettone fa schifo, hai la pancia, non aggrottare la fronte quando ti arrabbi che si vedono le rughe)
E poi lui, il primogenito.
Che torna da scuola con le cuffiette nelle orecchie e così esordisce: “mother, non puoi capire quello che è successo a scuola oggi” che di solito si completa con “ho preso quattro in fisica ma la prof ha deciso di non fare media perché hanno preso la sufficienza solo quattro gatti” o “c’era l’ora buca e ci siamo messi a saltare sui banchi, un mio compagno è caduto e abbiamo fatto un video che ti schianti dalle risate”
Il suo rientro di oggi, ore tredici e trenta, cuffiette nelle orecchie. Ciuffo ribelle, sorriso divertito.
“Mother, non puoi capire quello che è successo a scuola oggi”
“Ancora? Ma basta, neanche a Natale si può stare tranquilli? Cosa c’è stavolta?”
“Ora di arte: il prof stava parlando e ovviamente nessuno lo interrompeva altrimenti si ricordava che ci doveva interrogare. Parlava di oggetti artistici, stili architettonici”
“Quindi?”
“Quindi ha preso uno sgabello e ci ha chiesto ‘allora cosa mi dite, vi piace questo oggetto?’ e tutti hanno risposto di sì. E lui ha chiesto perché”
“Dunque”
“Dunque mi sono alzato in piedi e ho detto ‘perché è sga-BELLO’”
“Ossignore. E il professore cosa ti ha detto?”
“È venuto verso di me e mi ha stretto la mano”
Lo sbocco naturale del liceo non è più l’università.
È il palco di Zelig.