Dobbiamo parlare

Ho sempre amato osservare le interazioni umane e la comunicazione fra le persone.

Negli anni ho imparato a temere alcuni incipit, delle parole che messe in fila non fanno presagire nulla di buono.

Per esempio, un fidanzato che ti dice “dobbiamo parlare”, ed è quasi certo che non voglia confrontarsi sul ristorante dove andare a cena.

La piccola che sussurra “senza offesa, mami, ma…” (il polpettone fa schifo, hai la pancia, non aggrottare la fronte quando ti arrabbi che si vedono le rughe)

E poi lui, il primogenito.

Che torna da scuola con le cuffiette nelle orecchie e così esordisce: “mother, non puoi capire quello che è successo a scuola oggi” che di solito si completa con “ho preso quattro in fisica ma la prof ha deciso di non fare media perché hanno preso la sufficienza solo quattro gatti” o “c’era l’ora buca e ci siamo messi a saltare sui banchi, un mio compagno è caduto e abbiamo fatto un video che ti schianti dalle risate”

Il suo rientro di oggi, ore tredici e trenta, cuffiette nelle orecchie. Ciuffo ribelle, sorriso divertito.

“Mother, non puoi capire quello che è successo a scuola oggi”

“Ancora? Ma basta, neanche a Natale si può stare tranquilli? Cosa c’è stavolta?”

“Ora di arte: il prof stava parlando e ovviamente nessuno lo interrompeva altrimenti si ricordava che ci doveva interrogare. Parlava di oggetti artistici, stili architettonici”

“Quindi?”

“Quindi ha preso uno sgabello e ci ha chiesto ‘allora cosa mi dite, vi piace questo oggetto?’ e tutti hanno risposto di sì. E lui ha chiesto perché”

“Dunque”

“Dunque mi sono alzato in piedi e ho detto ‘perché è sga-BELLO’”

“Ossignore. E il professore cosa ti ha detto?”

“È venuto verso di me e mi ha stretto la mano”

Lo sbocco naturale del liceo non è più l’università.

È il palco di Zelig.

Informazioni su BarbaraB.

Educatrice e mamma, preparatissima sulla teoria e un po' meno efficace nella pratica. Per tentativi ed errori vado avanti, con un carico di ironia come antidoto alle quotidiane fatiche educative.
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