Ha due anni, occhi grandi socchiusi, una cascata di capelli ricci e il respiro affannato della febbre alta.
È seduta sulle mie gambe, la schiena sul mio petto, la testa appoggiata sotto il mio mento.
Tiene il braccino disteso, per farsi massaggiare l’incavo del gomito.
È tranquilla, come non accade mai a lei, il mio piccolo Diavolo della Tasmania, che trasforma quello che tocca in cocci, che tutto smonta e tutto travolge.
È silenziosa, la mia chiacchiera ambulante, che non smette di parlare anche se ancora non sa farsi comprendere.
È assorta, col ciuccio in bocca, mentre guarda rapita in televisione le avventure di un orsetto nel magico bosco dei cento acri, e le sue avventure gli amici. L’asinello, la tigre, il maiale, il canguro e il bambino.
Dieci anni dopo.
È sdraiata accanto a me nel lettone, anche se i suoi piedi arrivano più in fondo dei miei.
Tiene la testa piegata per appoggiarsi nell’incavo del mio collo, e un braccio disteso da farsi accarezzare.
I capelli lunghi e mossi insolitamente sciolti, perché è malata e non deve andare da nessuna parte.
Tira su col naso e cerca il pacchetto di fazzoletti perso tra le coperte.
Sul comodino il cellulare spento, ché le sue amiche sono a scuola, sulle ginocchia il mio computer, nello schermo un film.
Nel silenzio della casa vuota la storia di quel bambino, che ha ispirato il padre per creare il celebre orsetto.
Pochi boschi incantati, una madre distratta, un padre che ama senza farsene accorgere.
“La mia infanzia è stata bella, il difficile è stato crescere” dice il bambino ormai grande.
La mezzana ascolta e annuisce.
Poi guarda me e sorride.
E io penso all’onore di esserci, nella fatica del crescere.