Si muovono in branco, lentamente.Piccoli gruppi da cinque, massimo sei. Portano le mutande sotto il costume, che poi è un pantaloncino che arriva oltre al ginocchio. Si dividono due sdraio appollaiati e in bilico, rigorosamente all’ombra ché il sole evidenzia i brufoli e rovina i capelli. Non entrano in acqua finché il più grosso non lancia in piscina il più piccolo, e allora è tutto un lanciare ciabatte, asciugamano, mettimi giù che ho il cellulare in tasca, sei uno stronzo ma intanto rido.
E poi sono manate, grovigli, che non è rissa ma amicizia in questo bizzarro codice comunicativo al maschile.
Gli sguardi ai gruppi di ragazze, che sono in acqua tutte insieme, le trecce fatte la mattina raccolte dentro la cuffia, che tolgono appena il bagnino si distrae perché sono più carine senza.
Si ricongiungono coi loro cari al momento dei pasti, non un attimo prima, rispondono laconici alle domande sulla giornata, quasi che la conversazione fosse una conditio sine qua non per ottenere un piatto di pasta.
Si ritrovano subito dopo al campetto, rimbalzando pigramente una palla da basket in attesa di un’idea, un diversivo, un’apparizione, l’arrivo degli alieni.
In mezzo, una cassa. Dentro, la musica.
Uno di loro rigira tra le mani con destrezza le carte da gioco.
È il primogenito, che sta trascorrendo la sua prima estate da adolescente, senza una meta o una metà, silenzioso in bungalow e ciarliero altrove, sempre in compagnia della sua magia. Che ogni tanto è anche la mia.
“Mother, la vediamo l’alba io e te, domani?”
Altro che magia, qui si sfiora il miracolo.