Per chi me lo aveva chiesto, ecco l’articolo pubblicato su animazione sociale n. 309
“Io non mi fido nemmeno della mia ombra, perché di notte mi lascia”
Comincia così a parlare Annabella, la prima volta che ci incontriamo fuori dagli uffici comunali. Sono i primi giorni di febbraio, il freddo si sofferma nelle narici a ogni respiro e le labbra si screpolano per il vento, che ci investe con forti raffiche.
I colori algidi dell’inverno partono dal cielo e arrivano fino all’asfalto.
Annabella è una macchia di colore in mezzo a quel grigio.
La pelle ambrata, un maglione arancione coperto fino a metà schiena da una cascata di capelli castani e lucenti, del colore delle castagne. Mentre parla in un italiano imperfetto ma comprensibile i suoi occhi neri guizzano in tutte le direzioni. Con le mani gioca con il ciondolo della catenina che ha al collo, un sottile filo dorato con appesa una piccola madonnina.
“È la Nuestra Señora de los Remedios, che protegge. Protegge me e i miei bambini” Annabella è la mamma di Marisol, Isabel e Guillermo. È anche una donna sola con un lavoro faticoso e nessun compagno con cui condividere gioie e fatiche di crescere dei bambini.
Marisol è la figlia maggiore, la primogenita.
Ha dieci anni e qualche fatica più degli altri.
È nata in Cile, unica fra i suoi fratelli, con un problema neurologico importante. Marisol va a scuola, canta, balla, parla -in continuazione- come dice la sua mamma. Gioca, si arrabbia, fa i capricci. Fa quello che fanno la maggior parte dei bambini della sua età, solo con un po’ di ritardo, come se fosse partita appena dopo gli altri. Ha lo sguardo vispo e il sorriso della sua mamma, qualche chilo di troppo che Annabella cerca quotidianamente di arginare. Marisol è golosa, le piace la pastasciutta con il formaggio, le lasagne e soprattutto il gelato.
Dovrebbe fare più movimento, dice sempre la pediatra, ma il lavoro e gli impegni di Annabella non le consentono di portare la figlia in piscina, e Marisol non sa ancora andare in bicicletta. E poi ci sono le visite, i controlli, la fisioterapia.
Ci sono i bambini più piccoli da curare, i conti da far quadrare, i vuoti da riempire.
C’è una vita in salita che non accenna a scendere.
Marco e Claudia sono una coppia.
Un marito e una moglie, nessun figlio.
La lotteria della vita è bizzarra, a volte dà nella misura inversa di quanto desideri. Vuoi un bambino, lo cerchi, ci provi, guardi meglio, lo rincorri. Ma non arriva e alla fine smetti di aspettarlo.
Il vuoto che si spalanca viene riempito di cose da fare, esperienze, lavoro, amicizie.
Fino a quando un giorno non leggi distratta una locandina fuori dal bar, quello dove ogni giorno fai colazione prima di cominciare la giornata. La foto sullo sfondo lascia intravedere dei bambini senza mostrarli ma una parola spicca sulle altre, quasi fosse un’insegna intermittente.
Affido.
Una parola che viene da lontano, che nel suo significato originale porta due concetti profondi. Consegna e fiducia.
Per vie diverse e da partenze lontane Annabella, Claudia, Marco e Marisol incrociano le proprie vite.
La prima occasione di incontro è in un parco, l’appuntamento alla panchina di fronte alle altalene. Gli adulti sono emozionati e spaventati, Marisol è curiosa di conoscere le persone di cui le ha parlato la mamma. “Passerai due giorni la settimana con loro, farai i compiti e magari ti porteranno in piscina. Sarà bello, ma tu devi essere brava e comportarti bene” Fatica, Annabella, a pronunciare queste parole, a crederci veramente, a condividere la sua bambina con altri. Sempre lei si è occupata di questi figli, sempre lei li ha messi a letto la sera, sempre lei non si fida della gente. E in quel parco le viene chiesto prima di tutto di affidarsi.
Claudia arriva all’appuntamento con una mano stretta in quella di Marco e l’altra a reggere un sacchetto. Dentro una confezione di gelato al pistacchio, il preferito di Marisol. “E’ stata la tua mamma a raccontarmi che ti piace il gelato, ti confesso che sono molto golosa anche io” dice Claudia sorridendo alla bambina. Marisol guarda il sacchetto, poi Claudia, poi di nuovo il sacchetto. Si gira verso Annabella in attesa. La madre, esitando appena, sorride. Il pomeriggio scorre veloce, con Marco che spinge Marisol sull’altalena, dapprima cauto, timoroso di farla cadere e poi sempre più in alto, fino al cielo, come grida felice la bambina. Da quel giorno sull’altalena passa un anno.
Passa a piccoli passi, da momenti di fiducia e altri di chiusura, tra un aprirsi e un ritrarsi. Marisol impara ad andare in bicicletta e a Marco viene mal di schiena, Claudia ripassa di nascosto l’inglese per aiutarla nei compiti, Annabella va al lavoro più tranquilla.
In estate trascorrono dei momenti insieme, vanno al lago e in piscina perché Marisol ha vinto la pigrizia e con l’aiuto di Claudia ha imparato a nuotare.
A volte si discute, perché non è semplice né forse possibile essere sempre tutti d’accordo. Però ci si confronta.
Annabella non guida la macchina e Claudia spesso accompagna lei e Marisol dal dottore, a scuola, al campo estivo. Quei viaggi in macchina diventano l’occasione di ascoltarsi e conoscersi, di scoprire che i vuoti non hanno differenze.
Che si impara a chiedere aiuto e ad accettarlo. Che si è capaci di essere genitori, anche se non lo si è mai stati. Si impara che il sorriso di una bambina fa sentire tutti più vicini, anche se si proviene da mondi lontani.
Si impara così, come dice Dávila, che i veri problemi non hanno soluzione, ma storia.
L’affido familiare è una forma di accoglienza di bambini e adolescenti le cui famiglie attraversano un periodo di difficoltà. L’affidamento permette a un bambino di sperimentare nuovi rapporti affettivi ed educativi pur conservando i propri legami familiari. Può durare da alcuni mesi a due anni, il tempo di cui ha bisogno la famiglia del bambino per ritrovare le condizioni per riaccoglierlo, anche grazie all’aiuto dei Servizi sociali e degli operatori. Durante questo periodo il minore affidato continua a incontrare i suoi genitori e questi sono coinvolti in tutte le scelte importanti relativi al proprio figlio.