Appoggiata alla portiera chiusa dell’auto, nel piazzale.Un sole che ha il sapore di estate, vacanze, musica e vestiti leggeri.
In piedi, con gli occhiali da sole e le braccia conserte, aspetto.
Intorno a me macchine, alcuni genitori che parlano, altri in compagnia del cellulare.
Il brusio che si fa vociare nel tempo del suono acuto di una campanella.
Sorrisi, risate, felpe legate in vita e braccia scoperte.
Saluti, energiche pacche sulle spalle, ci vediamo dopo giù al campo, si fanno due tiri. Ci sentiamo su WhatsApp, studio e poi esco. Dai che facciamo tardi, il pullman non ci aspetta.
Arriva anche lei, che svetta anche se ha smesso di essere la più alta. Arriva con un ondeggiare di capelli e le maniche corte, con una maglietta colorata per me sempre troppo corta che ci fa litigare.
Arriva e la osservo, nell’attimo prima che il suo sguardo trovi il mio.
Arriva e insieme alla consueta felicità di rivederla sento un brivido. Paura, preoccupazione, sollievo. Insieme.
Mia figlia non è diversa dai ragazzini che ieri sera erano al concerto.
Mi immagino l’euforia, la preparazione, le foto dei biglietti su instagram, magari le discussioni e le insistenze perché mamma ti prego, lei è bellissima bravissima e canta benissimo.
Mi immagino quei genitori fuori ad aspettare, che hanno voluto realizzare un sogno, appoggiati alle auto o presi dal cellulare.
Mia figlia poteva essere una di quelle ragazzine, io potevo essere uno di quei genitori.
Arriva e io la stringo, nonostante il suo imbarazzo.
Arriva e la abbraccio, perché a volte è l’unico gesto possibile.