Ci sono giorni di grazia, quando basta un buon giorno sussurrato per farli alzare dal letto. Quando apprezzano il pranzo e chiacchierano fra loro, più amici che fratelli. Quando i compiti si fanno da soli e senza capricci, le equazioni si risolvono, si capisce la lezione di tedesco ed è più facile scrivere in corsivo. Quando chiedi e rispondono, domandi ed eseguono, ridi e sorridono.
Ci sono giorni bui, quando anche il buongiorno dà fastidio e il malumore è una cappa di afa sulla casa. Quando non si trova la maglietta preferita, ci si è dimenticati i verbi di francese per la verifica e fuori piove. Quando a tavola ci sono gli spinaci e hai il cellulare sotto sequestro, volano parole e mazzate più da fratelli che da amici. Quando non capisci l’area della corona del cerchio, devi studiare quindici pagine di storia e la acca in corsivo non ne vuole sapere di venire. Quando parli al vento, chiedi a loro senza avere risposta, chiedi a te chi te lo ha fatto fare.
Ci sono giorni in cui ti si spalanca la meraviglia, altri il baratro. E poi ci sono giorni, e sono la maggior parte, in cui buio e sorrisi, carezze e mazzate, ascolto e indifferenza, dolcezza e arroganza, si mescolano insieme come in un grosso calderone. Quando non capisci dove comincia uno e finisce l’altro, quando non sai se essere soddisfatta o sconfortata, quando ti dici che forse va bene così.
La genitorialità è un periodo ipotetico. Della realtà, della possibilità o della irrealtà. Un costrutto facile ma non semplice, dove c’è sempre un’ipotesi, ma non sai mai quale sarà la conseguenza.