Cena di compleanno, a casa di amici. La regola è semplice ma efficace: che ognuno porti qualcosa. Io però, già lo so, ho un impegno in più e come spesso accade in simili circostanze oscillo tra la voglia di stare in compagnia e il desiderio di mangiare a casa mia lontano da occhi indiscreti e domande curiose. Altra occasione, stesso problema: pizzata di fine anno con le classi dei figli, cena in oratorio per raccolta fondi di qualcosa, ché il parroco è ormai uno specialista in crowdfunding e si destreggia meglio di un grande imprenditore per racimolare il necessario a pagare il riscaldamento della cappella, la gita a Medjugorje del centro anziani o l’imbiancata alla sagrestia.
Cena multietnica della consulta stranieri, pranzo in ufficio di corsa, gite, pic-nic, aperitivi, colazioni, inviti a cena e torte, biscotti e dolcetti che le persone gentili offrono quando hanno ospiti a casa e che io, ogni volta, rifiuto nel modo più cortese possibile. La verità è che non vorrei affatto rifiutare, ma accettare con un gran sorriso quanto mi viene proposto.
Il ma in questa storia si chiama glicemia, che nel caso specifico è particolarmente anarchica e va tenuta a bada con una rigida disciplina alimentare. Il disturbo è dono della terza e ultima gravidanza che, insieme a una bella bambina, le smagliature e qualche chilo in più mi ha regalato dei valori impazziti. Nulla di grave, s’intende. Il mondo è pieno di problemi legati al cibo, mia cugina è celiaca, mio cognato è affetto da favismo e uno dei miei figli è intollerante al lattosio. Si vive lo stesso e anche bene, con qualche piccolo accorgimento.
Io, per esempio, sono ormai nota tra amici, colleghi e parenti per quella che a tavola non si concede mai una gioia. E non a torto, riflettendoci. Mentre gli amici assaggiano il nuovo tipo di pizza al carbone vegetale e scamorza – un mio caro amico ha da poco aperto una pizzeria, tanto per stare allegri- io mi gusto bresaola e spinaci; frattanto che i parenti saltano la paella in padella dispongo crescenza e asparagi nel mio piatto; davanti a un sontuoso tiramisù (che magari ho preparato io stessa) mi gusto uno yogurt ai frutti di bosco. Sempre io, che ho provato a imbarcarmi sul volo Malpensa- Sharm El Sheikh con due buste di bresaola in borsa, sequestrate al controllo bagagli con le stesse modalità normalmente utilizzate per i narcotrafficanti colombiani.
Chi mi conosce, oramai, lo sa. Gli altri, guardano e chiedono. La domanda più gettonata è, da sempre, “sei a dieta?” e le sue originali varianti “cominci a dicembre per la prova costume?” o “ci tieni proprio alla linea, eh?” gettando contemporaneamente uno sguardo allusivo ai miei fianchi, a riprova che il consumo di carboidrati non alimenta le cellule celebrali. Poi ci sono i colleghi che, per qualche misteriosa congiunzione astrale, sono per la maggior parte vegetariani e inevitabilmente storcono il naso, addentando il loro tofu, mentre io degusto la mia bistecca. Altra reazione consueta è quella di chi si dispiace per me, si intristisce al pensiero che esistano persone a cui il destino avverso impedisce di assumere carboidrati mattina e sera. Un dispiacere che scivola nella pietà vera e propria nel momento in cui vengono a conoscenza dell’altro mio indicibile segreto: sono astemia. Per alcuni è una bestemmia, per altri una colpa, per altri ancora è come se confessassi un infanticidio, a ben guardare l’espressione inorridita che gli si dipinge sul volto. A un conoscente particolarmente insistente e fastidioso ho risposto che no, non potevo bere nemmeno un goccio perché ero di ritorno dalla riunione settimanale con gli alcolisti anonimi. Il suo sguardo attonito è valso la piccola bugia. Qualcuno si è persino spinto a scomodare Baudelaire, ricordandomi con tatto e gentilezza che “chi non beve vino ha qualcosa da nascondere”.
Chissà il buon Charles cosa avrebbe detto di chi, come me, sta alla larga anche da amari, superalcolici e birrette con gli amici.
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