Di tutte le parole che si possono spendere sul tema della maternità e della cura dei figli non si dovrebbero dimenticare quelle che raccontano aspetti meno edificanti e più faticosi del mestiere di genitore.
Di questi aspetti, forse il meno considerato ma nella mia esperienza il più frequente e che mi è apparso con tutta la sua rilevanza in questi giorni di solitudine, è il fatto di essere interrotti.
Nei pensieri, nelle attività, nel lavoro, nel fare la pipì, nel mangiare, a metà di una canzone che vuoi sentire, una telefonata importante, il prelievo al bancomat, la lettura di un libro o di un giornale, girando il risotto, rifacendo il letto, mettendo lo smalto, asciugando i capelli. Interrotti durante una conversazione con un’amica, mentre ti metti il mascara, stendi il bucato, paghi alla cassa. Mentre prendi il sole, cerchi di addormentarti, fai la ceretta.
C’è sempre una comunicazione, un’urgenza, una improrogabile necessità. Di verificare che la mamma sia sempre lì, che ci senta ancora, che sia pronta in ascolto. Tante volte non è ben chiaro nemmeno a loro la richiesta.
La frequenza con cui ciò accade è allarmante. Facendo un calcolo spannometrico ogni figlio riesce a interrompere pensieri, parole e opere una quarantina di volte al dì. Immagino esista un algoritmo per calcolare esattamente il quoziente di interruzioni quando le creature sono multiple. Il che porta inevitabilmente a uno stato di confusione perenne, dimenticanze continue, colossali pasticci. Entrare in una stanza e chiedersi cosa si fosse mai venuti a cercare, aprire il frigo e non sapere più che ingrediente servisse, prendere il telefono senza sapere chi chiamare.
Diciamo la verità. Questo stato di cose dovrebbe di diritto essere riconosciuto dalla medicina.
Magari come sindrome della madre interrotta.
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