Saggio di flauto. Recita di Natale. Torneo natalizio di minivolley. Cena povera con pesca di beneficienza. Pandoro e biscotti per la festa in seconda media. Serata di saluti con la cooperativa. Auguri con i gruppi di famiglie. Per lavoro, festa di una scuola media e di una materna, con canti e visita di Babbo Natale. Tutto in una sola settimana, anzi in sei giorni. Un turbinio di socialità che neanche a diciotto anni potevo vantare. E a quarantuno mi guardo bene dal desiderare. Ma, come mi dice sempre mia madre quando provo a lamentarmi, se ho voluto la bicicletta ora devo pedalare, anche se al momento dell’acquisto non avevo ben chiaro la moltitudine di chilometri che avrei dovuto percorrere. È soprattutto non immaginavo l’impegno e la pace interiore richiesti per tollerare le prove casalinghe del saggio di musica, ché il flauto da strumento celestiale passa ad arma di distruzione di massa nello spazio di un solfeggio. E poi regali, pensieri, idee che non vengono -o che verrebbero anche, sorrette da un altro budget- menù natalizi:
“mamma, mangiamo pandoro per cena?”
“No”
“Allora vanno bene le lasagne”.
Ma poi c’è lei, il mio personalissimo elfo, lo spirito del Natale incarnato nel corpicino rotondo di una bimba di sette anni, che mi fa andar giù con un sorriso anche i canditi del panettone.
“Mamma, ho dimenticato di chiedere alcune cose a Babbo Natale. Dobbiamo chiamarlo”
“A me sembra che tu abbia chiesto abbastanza, compresi i biglietti per New York che, francamente, non penso proprio il caro Babbo ci possa portare. E comunque non ho il suo numero, dovrà accontentarsi della letterina.”
“Va bene, niente telefonata allora. Whatsapp??”