
C’è un aspetto della genitorialità, collocato tra un’esibizione e l’altra di questo sghembo circo Barnum, che non smette di intenerirmi e sconcertarmi.
Sono una donna, una madre, una pedagogista (cosa vi ricorda?) con degli strumenti abbastanza solidi, un livello medio di comprensione del testo, una demenza senile appena accennata e non invalidante, ecco.
Ma non basta, evidentemente.
Quando uno dei miei figli combina qualcosa, evento tutt’altro che raro e con diverse sfumature non di grigio bensì di gravità –qualunque trasgressione adolescenziale vi venga in mente probabilmente l’abbiamo avuta-si scatenano in me sentimenti contrastanti.
Il primo è la furia, sempre che possa essere catalogato come sentimento e non istinto primordiale. Quella accecante, che ti inietta gli occhi di sangue e ti fa tuonare punizioni assurde e non sostenibili come “non uscirai fino ai quarant’anni, basta playstation fino alla maggiore età, non ti comprerò più neanche un paio di mutande finché non ti sposi”
Non ci crede nessuno, persino il gatto ti fissa con la commiserazione di chi sa quanto le tue parole siano urlate al vento.
Ma il figlio o la figlia sa che c’è un modo, pressochè infallibile, per rientrare nelle grazie –e nelle tasche- del genitore: il messaggino smielato.
“Intanto scusa, mamma. Ho commesso un errore imperdonabile, non so davvero cosa mi sia successo. Sai che non sono così e credimi, la cosa che mi fa più male e non dormire la notte è avere perso la tua fiducia, cosa a cui tengo più del mio iphone. Se non avrò il tuo perdono capirò. Con immutata stima e amore, tuo figlio/a/i”
Un coacervo di balle, un’accozzaglia di falsità, un tentativo di circonvenzione di incapace, persino. Ne ho una collezione intera, potrei allestirci una mostra. Devono avere un manuale, come quello delle Giovani marmotte, che li istruisca fin da piccini alla nobile e criminale arte di intortare il genitore furibondo.
Perché io, ogni volta, ci credo come se fosse vero.