Tre volte a settimana, un’ora andare e una a tornare, su e giù tra laghi e boschi, gelo d’inverno e fresco d’estate.
Lavoro in un servizio essenziale e non mi è data la possibilità di scegliere né l’ordine di stare a casa. Si va, punto.
A casa sono più confinata, in particolare modo in cucina. La vasocottura è ormai una dipendenza conclamata che allo stato dei fatti non può che peggiorare.
Non trascorrevo così tanto tempo coi miei figli da quando erano piccini e stavo ore seduta sulle piastrelle azzurre del bagno perché la cacca ispira pensieri profondi che non possono non essere condivisi, la parola mamma riecheggiava come l’eco nel Gran Canyon, le baruffe si trasformavano in zuffe nello spazio di un respiro.
Cacca a parte, tutto è uguale a allora.
In questo distopico grande fratello che è diventata la nostra esistenza, ci scopriamo uguali e diversi, uniti ma nemici, solidali e ostili.
Il virus ci ha tolto, un pezzo alla volta, le sovrastrutture della socialità, la scuola, lo sport, il lavoro, le uscite, il caffè al bar, le chiacchiere in ufficio. Lo ha fatto come una sfortunata partita a strip poker, via la maglia, fuori i calzini, butta i pantaloni.
Lasciandoci lì seduti con le nostre imperfette nudità, con le maniglie dell’amore che eravamo soliti nascondere con un maglione ampio, la cellulite mascherata dalle collant contenitive, le occhiaie coperte dal trucco.
La vicinanza forzata e continuativa ci mostra così come siamo fatti, costringendoci a farci i conti, a non chiudere gli occhi.
E forse, ad amarci di più per quello che siamo.
Nella nostra imperfetta umanità.