“Mother? Va bene lì, puoi fermarti all’angolo della strada”
“All’angolo? Ma se il parcheggio è vuoto? Andiamo un po’ più in là”
“Madre, tranquilla, faccio quattro passi”
“Quattro passi? È l’alba e c’è il diluvio universale, c’è la grandine e quasi la neve, invece che il pullman per la gita prenderete l’arca di Noè e tu vuoi fare quattro passi? E poi guarda, là in fondo ci sono i tuoi compagni, andiamo, ti tengo sotto il mio ombrello”
“Maria, appunto. Preferirei scendere qui”
“A parte che la devi smettere di chiamarmi con tutti questi nomignoli. Io sono la mamma. Vuoi dire che preferisci camminare sotto l’acqua che farti vedere dai tuoi amici con me?”
“Ehm…”
Meglio la pioggia che la vergogna, a quanto pare. Il preadolescente ha reciso in una mattina buia di pioggia l’ultimo brandello di cordone ombelicale. Lo ha fatto con quel sorriso incantatore, lo stesso che gli ha attraversato la faccia quando aveva solo poche settimane e io meditavo di regalarlo per Natale, dopo giorni di veglia e pianti. Lo stesso sorriso di quando ha perso la mia collana preferita, tagliato i ricci alla sorella mezzana e dato da bere il detersivo liquido alla piccola, consapevole fin dalla più tenera età della magia che nasce da due angoli della bocca tirati verso le orecchie. Lo ha fatto con una rassicurante pacca sulle spalle, come è uso tra vecchi amici. Lo ha fatto sbattendo la portiera e correndo felice sotto una pioggia battente, verso i suoi compagni, la gita, la vita.