Ti guardavo ieri, lì su quel palco, nell’aula magna della scuola media.
Ti guardavo, la più alta di tutti, con i capelli ormai più lunghi dei miei che hai voluto ti facessi lisci per l’occasione, bellissima con quel sorriso finalmente raddrizzato.
Ti guardavo, sicura ed emozionata, felice ed eccitata, pronta e partecipe.
Ti guardavo, sai, con quella maglietta che ti eri stirata da sola la sera prima, tu che come me sei nata col vizio dell’autonomia.
Ti guardavo, dritta e fiera, che come dice la tua brava maestra sei già all’università, perché studi solo quello che ti piace.
Ti guardavo e pensavo, come più di dieci anni fa davanti a una neonata minuscola, che quella meraviglia l’ho proprio fatta io.
Ti guardavo e l’emozione mi lasciava senza fiato, perché alla scuola media si comincia a fare sul serio.
Ti guardavo e sorridevo, perché davanti a tanto futuro non si può fare altrimenti.
Ti guardavo e piangevo, cercando anche di fotografarti mentre cancellavo tutte le applicazioni dal cellulare per fare spazio alla memoria ormai piena.
La mia memoria, però, ha ancora un sacco di spazio.
Perché solo ora cominci, solo ora si intravede la ragazza che diventerai, solo ora comincio a immaginare la donna che sarai.
Insomma, una pioggia di emozioni di centoventi minuti. Perché a me la maternità ha regalato anche questo: un rubinetto di emotività che si apre nell’anima quando assisto a una qualunque esibizione, saggio, recita. Lacrime, commozione, orgoglio perché in queste occasioni mi sento come se stessi ricevendo il Nobel per la letteratura, anche davanti a un canto di Natale dei pulcini della scuola materna o lo spettacolo finale delle quinte.
Ti guardavo ieri sera, insieme ai tuoi compagni.
Vi guardavo e pensavo che siete stati davvero bravissimi, su quel palco dell’aula magna, tutti quanti.
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