Ho finalmente capito perché il periodo delle gestazione, quei nove lunghi mesi di gravidanza, portano il nome di attesa.
È un monito, un velato suggerimento, un malcelato imperativo, una inesorabile verità.
È il tentativo vano di farti immaginare il tuo futuro prossimo che sarà segnato, appunto, da un’attesa costante.
Attesa che nasca, in primis. Attesa che dorma, parli, cammini. Attesa seduta su un pavimento freddo ad aspettare che si decida a fare la cacca nel vasino. Attesa nello studio del pediatra, dal dentista, dermatologo, oculista e specialisti vari. Attesa nella notte, che non passa mai, nella sala d’aspetto (!) di un pronto soccorso pediatrico. Attesa dell’acqua che bolle per buttare la pasta, di una telefonata per farsi venire a prendere, ai colloqui generali con i professori delle medie. Attesa alla fermata dello scuolabus la mattina, fuori dai cancelli di un oratorio a mezzogiorno, a bordo campo una domenica pomeriggio.
Attesa su un marciapiede per il rientro di una gita scolastica quando il pullman è bloccato nel traffico, per una festa di compleanno più lunga del previsto e a casa in apprensione le prime volte che esce da solo.
Per me, donna di urgenze e emergenze, imparare ad attendere è stata una delle rivelazioni più potenti della maternità. Più che un’insegnamento graduale è stato un master di alto livello di pratiche zen, ma la competenza di attesa acquisita negli anni è stata poi trasversale in ogni esperienza della mia vita. Nel lavoro quanto nella vita privata, oggi più di ieri, mi faccio una ragione quando per avere quello che desidero o di cui ho bisogno mi tocca aspettare.
Attesa è imparare a riordinare i bisogni nella propria lista interiore, accantonare fame, sete, sonno o pipì perché c’è un bambino da ascoltare, un bicchiere da riempire, una ferita da medicare.
L’attesa è dentro quanto fuori, è nella capacità di non sbuffare alle parole “ancora un attimo”, che saranno di attesa per te, di gioco per loro.
Aspettare è anche e soprattutto una forma profonda di amore. È il tempo che si fa dono, smette di essere tuo e diventa spazio di vita per un altro. Per aspettare ci vuol pazienza, tolleranza, allenamento.
Non sempre si riesce, a volte si grida, di rado si scappa, più spesso si trattiene l’istinto omicida.
Davanti a un preadolescente serafico, con tutta la vita davanti, che mentre rischi di perdere lo scuolabus, il lavoro e la pazienza scandisce lento ” keep calm, mother”.
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