Quando si fa il primo figlio oltre una certa età, i dottori ti definiscono -con sensibilità rara- primipara attempata.
Io sono stata una laureanda, attempata.
Ho cominciato l’università regolarmente, dopo il liceo, col primo anno da fuori sede. Poi la vita si è messa un po’ di traverso e i piani sono leggermente cambiati. Ho cominciato a lavorare, è arrivato un bambino via l’altro e l’università è diventata un orizzonte sempre più lontano. Ma io faccio molta fatica a lasciare le cose a metà, che siano lavori, progetti o relazioni. Ho sempre bisogno di chiudere il cerchio in un senso o nell’altro, con le cose e le persone. L’incompiutezza mi pesa e mi rallenta, impedendomi di fare dell’altro. Così ho deciso di terminare gli studi, finire gli esami, far felice la mia mamma che forse più di tutti ci credeva e, come amava ripetermi “chissà se ti vedrò laureata prima di andarmene”.
In ultimo -ma non troppo- mi sembrava bello per i miei figli.
Ho sempre pensato che i bambini si educhino con l’esempio più che con le parole. Mi sbagliavo. La figlia di mezzo, durante i festeggiamenti post-laurea, ha dichiarato che andrà a friggere patatine in un fast food piuttosto che fare tutta quella fatica.
Mi sono laureata quasi a quarant’anni, praticamente a un soffio dal master all’università degli anziani.
Questo fine settimana sono tornata nel capoluogo piemontese che mi ha accolto durante il primo anno di studi e dal quale proviene il ramo paterno della mia famiglia. L’occasione è stata l’incontro annuale con colleghi e amici che, come me, condividono prassi di lavoro buone e alternative.
Non tornavo a Torino da anni e avevo voglia di rivedere quei luoghi con occhi nuovi.
In realtà una occasione c’era stata qualche tempo fa, quando ho accompagnato la quarta elementare di mio figlio in visita al museo Egizio. Ma un pullman di trenta bambini ti fa passare la voglia di visitare alcunché, oltre a renderti gradita pure la vista delle tre sorelle mummie del museo, che saranno anche un po’ datate ma almeno non gridano di continuo.
Torino si è mostrata ancora più bella di quanto mi ricordassi, nonostante la pioggia. Passeggiare per i portici del centro storico, rivedere la Mole illuminata, simbolo della città che ammiravo ogni mattino dalle finestre della facoltà. È passata una vita dall’ultima volta che sono andata via sola, senza le mie tre chiassose appendici.
Sarà per questo, per l’imprevista libertà, la vertigine dell’indipendenza, il silenzio intorno a me, lo sguardo più maturo, ma anche la periferia di una metropoli mi sarebbe parsa ugualmente affascinante e magica.
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