In macchina, appena parcheggiata, tardo pomeriggio.
Sto per scendere a bere un cappuccino con la cannella, approfittando degli unici dieci minuti di libertà tra un accompagnamento a catechismo, un recupero di basket e una corsa a pallavolo.
Di fianco alla mia auto, una banca. Davanti alla banca, un uomo. Sui trenta, capelli scuri tirati su col gel e pizzetto, giubbotto e jeans neri. Una macchia scura davanti alla porta arancione -chiusa- della banca. È arrivato deciso, senza alcun dubbio di fede sugli automatismi e i meccanismi di apertura. Ma qualche dubbio è sempre meglio avercelo, per evitare di schiantarsi contro il vetro, come accaduto invece al pover’uomo. Che però, va detto, non si è perso d’animo nonostante l’impatto. Ha subito fatto un passo indietro per mettersi a favore di fotocellula, senza ottenere alcunché. Allora ha provato con un passo avanti, uno indietro, a destra e a sinistra ma nulla, nonostante questa scoordinata macarena la porta è rimasta drammaticamente chiusa. Quindi, in un’improvvisa epifania, ha estratto il portafoglio dalla tasca posteriore dei jeans, prendendo il bancomat come fosse la chiave della città. Tenendolo tra indice e pollice lo ha mostrato alla fotocellula con aria di sfida, giusto per far capire al diabolico congegno chi comanda. Ma ancora niente. Dal vetro dell’auto ho avuto modo di cogliere il movimento delle sue labbra, ma dal labiale non sono riuscita a stabilire se stesse provando con “apriti sesamo” o più semplicemente snocciolando il rosario. Proprio in quel momento è sopraggiunta una giovane donna dai lunghi capelli biondi. Gli si è affiancata, passando il bancomat nella banda magnetica. Come in una favola, la porta si è spalancata, facendo entrare la bella signorina. E richiudendosi immediatamente alle sue spalle, come le acque del mar Rosso al passaggio di Mosè. Lasciando l’uomo solo sul marciapiede, con la bocca spalancata dall’incredulità. A passi lenti e scuotendo la testa, risentito e offeso, è risalito sulla sua auto partendo a tutta velocità.
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